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LA DEPOSIZIONE DI DANIELE DA VOLTERRA

Il capolavoro restaurato e ricollocato a Trinità dei Monti

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Committente era Elena Orsini, cui si deve la scelta del tema iconografico legato alla storia della Vera Croce. 

Pietra miliare del manierismo romano, il capolavoro dell’allievo più fedele di Michelangelo si orienta verso la monumentalità e l'articolazione plastica delle figure michelangiolesche, o meglio, riesce ad offrire una sintesi tra l'eleganza di Raffaello e la potenza di Michelangelo e per questo viene subito giudicato un capolavoro e un documento essenziale per la formazione dei giovani artisti, opera di riferimento a Roma, considerata a partire dal XVI secolo come un capolavoro che ogni artista doveva vedere in occasione del suo “Grand tour”, innumerevoli volte citata o copiata.

All’inizio dell’Ottocento però iniziarono i primi problemi: la cappella Orsini, affrescata e decorata all’intero con pregevoli stucchi realizzati anch’essi da Daniele da Volterra, subì un crollo delle volte causato dall’abbandono della chiesa a seguito all’espulsione dei Minimi (ordine monastico francese) che danneggiò questo “gioiello” distruggendo gli affreschi e gli stucchi e lasciando la Deposizione in balia degli agenti atmosferici per un tempo indefinito.

Nel 1806, con un simile trattamento, lo stato dell'affresco era pessimo e si decise di staccarlo dalla parete. L'operazione fu condotta nel 1809-10 dal restauratore romano Pietro Palmaroli ed è ricordata nella storia del restauro come la prima "rimozione a stacco": fu certamente uno fra i primi stacchi con intonaco senza distruzione della muratura. Palmaroli strappò lo strato di pittura con una parte del rivestimento di supporto, lo ricoprì di gesso per mantenerlo in piano e lo trasferì su tela per mezzo di strati di pece e cera e poi su di una intelaiatura come fosse un quadro. La pittura fu ricoperta di uno spesso strato di cera per restituire brillantezza. Palmaroli fece anche ampie integrazioni della pittura che furono eliminate nel 1821; l’affresco divenne così un dipinto mobile.

Solo nel 1861 la Deposizione tornò in una cappella della Trinità dei Monti, l'attuale cappella Bonfil.

Il distacco che aveva salvato l'affresco stava per farlo scomparire. Il processo di degrado andava avanti, i materiali usati si stavano rivoltando contro il dipinto: deformazioni e lesioni sulla superficie pittorica, il capolavoro appariva quasi trasfigurato nei rapporti cromatici.

Soltanto tre anni fa alcuni studi, condotti su iniziativa dei Pieux Etablissements de la France à Rome et à Lorette e del Gabinetto di Ricerche Scientifiche dei Musei Vaticani, hanno considerato l’eventuale intervento di restauro, confermando l’ipotesi di una possibile buona riuscita. Il lavoro di recupero di Adriano Luzi e di Luigi de Cesaris ha avuto esiti impensati: l'opera ha riacquistato la sua antica leggibilità, i colori originali, in sintonia con i "cangianti" della volta della Sistina, la linearità preziosa che definisce i panneggi, la sua corposa consistenza plastica di michelangiolesca memoria. L'intervento sulla Deposizione ha dimostrato come l'affresco sia stato realizzato da Daniele da Volterra secondo una tecnica conforme alla più alta tradizione della pittura murale del XVI secolo, come ha spiegato Luigi de Cesaris, l'opera è stata eseguita in cinquantatré giornate di lavoro, procedendo dall'alto verso il basso, da sinistra verso destra, con una straordinaria dovizia esecutiva.
Oltre alla sostituzione del supporto, sono stati effettuati interventi di pulitura, risarcimento delle lacune e reintegrazione all'acquerello, quello che è saltato, per scarsa adesione,  spiegano i restauratori, è il 'lapis', il “lapislazzuli" che rendeva di un azzurro sfavillante la veste della Madonna, ora grigio-azzurro, la tunica di Giovanni in piedi sulla sinistra, ora ancora più slavata del grigio, e le maniche della veste dell'uomo col turbante che dall'alto sorregge un braccio di Cristo. Per immaginare quale azzurro e quali lumeggiature doveva dare quel lapislazzuli (e quindi come dovevano essere gli altri colori) basta girare la testa, dalla cappella Bonfil  alla cappella Della Rovere che ospita altri affreschi dello stesso autore e dei suoi collaboratori.

Questo restauro rappresenta un miracolo tecnico nel recupero completo prima di tutto dei particolari e della nitidezza della complessa, affollata composizione. Prima del restauro il dipinto, alto 3,38 metri e largo 2,31, si presentava come un ammasso con qualche zona colorata, con le figure annerite, impastate, indistinguibili, oggi finalmente anche noi possiamo ammirarla e restare stupefatti da quel nugolo di persone che con quattro scale appoggiate alla Croce si arrampicano, si sporgono, si allungano al limite della caduta sforzando muscoli e tendini, per far scendere lentamente il corpo di Cristo, sorreggendo chi è in equilibrio precario, invitando a fare piano; dalla figura di  Cristo che discende verso il gruppo delle donne distratto, totalmente assorbito a portare aiuto alla Madonna che straziata è riversa per terra, in primo piano, a bocca aperta; dal giovane Giovanni, sulla sinistra, con il suo volto michelangiolesco, che unisce i due gruppi di personaggi.

Alessandra Russotti

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